Categoria: Attualita’
“Torri Gemelle minate”: dopo 18 anni si riaprono le indagini grazie a 5 uomini. La versione “ufficiale” comincia a perdere pezzi.
lI 24 luglio scorso, 18 anni dopo la tragedia dell’11 settembre a New York, nel silenzio totale dei grandi media americani (e italiani), cinque uomini non “qualunque” si sono riuniti nel Distretto di Piazza Franklin e Munson, a un passo dai Queens di New York, per approvare, all’unanimità, una risoluzione.
Il cui testo proclama l’”incontrovertibile evidenza” del dato che “esplosivi preventivamente collocati” all’interno delle “tre torri” del World Trade Center, “ne hanno provocato la distruzione”.
Chiunque abbia seguito un poco le polemiche che da 18 anni ruotano attorno alla spiegazione dell’11 Settembre 2001, si renderanno conto immediatamente che una tale dichiarazione cancella in un colpo solo l’intero impianto della inchiesta ufficiale, contenuta nel famigerato “9/11 Commission Report”.
Dunque è importante sapere chi sono questi cinque uomini. Sono i membri della Commissione dei vigili del fuoco del Distretto di Piazza Franklin e Munson: un distaccamento di “volontari” (come lo sono i pompieri americani) che subì gravi perdite mentre portava aiuto nei primi momenti del dramma. I pompieri della Contea di Nassau che morirono nelle torri furono 24, ai quali si aggiunsero quattro residenti nel quartiere. La Commissione dei cinque (composta da uomini che 18 anni fa parteciparono a quelle operazioni e ne uscirono vivi) ha l’incarico di tenere viva la memoria di quell’evento.
I loro nomi vanno ricordati: Philip F Melloy, Dennis G. Lyons, Joseph M. Torregrossa, Christopher L. Gioia, Les Saltzman. Non perché siano famosi. Né probabilmente lo diventeranno. Ma sono importanti perché videro con i loro occhi, sentirono con le loro orecchie. Sono i primi esperti, sanno di che si tratta, portano i segni nei loro corpi.
Tuttavia non furono ascoltati, nemmeno interrogati dalla Commissione. E, se lo furono, le loro testimonianze vennero taciute o ignorate. Ci sono voluti 18 anni perché potessero trovare la forza e il coraggio di rendere pubblico, solennemente, quello che sanno. Ovviamente i grandi media americani e occidentali non diranno una parola di tutto ciò, ma questo non basterà per fermare la notizia. Non lo impedisce a noi in questo momento.
Questi cinque testimoni, pompieri di New York, cittadini americani, si sono mossi dopo che il Comitato degli Avvocati per una nuova inchiesta sull’11 settembre è riuscito a far arrivare una precisa richiesta sul tavolo del Procuratore del Distretto Sud di New York, Geoffrey S. Berman.
La richiesta era esattamente quella di riconoscere l’evidenza che il World Trade Center era stato preventivamente riempito di esplosivi, prima dell’arrivo degli aerei che colpirono due delle tre torri. Il fatto nuovo fu che l’Ufficio del Procuratore rispose (nel novembre scorso) riconoscendo che la petizione aveva il diritto di essere portata sul tavolo di un Gran Jury, cioè di fronte a un Tribunale dello Stato.
Il tempo passa, gli ostacoli ci sono e cresceranno, i ritardi si accumuleranno. Ma adesso ci sono testimoni e esperti che dichiarano pubblicamente di voler sostenere “ogni sforzo di altre istituzioni governative che “vorranno investigare e scoprire la verità — che continua a essere ostacolata — sugli eventi di quell’orribile giorno”. Così dice la risoluzione dei pompieri di New York, Contea di Nassau. Il commissario Gioia ha detto: “Noi siamo il primo Distretto che approva questa risoluzione. Non saremo gli unici”.
Ma allora risorge potente un interrogativo: chi piazzò quelle cariche esplosive nelle tre torri? Chi poteva condurre in porto una tale operazione? Non certo i 19 terroristi “islamici” che sarebbero stati (e non c’erano) a bordo degli aerei. Ci volevano squadre di specialisti ben protetti per farlo. Tutte cose di cui la Commissione Ufficiale neppure si è occupata, negando poi l’esistenza “inoppugnabile” delle esplosioni dal basso, che precedettero e accompagnarono i crolli.
Dunque la Commmissione ufficiale ha mentito. Ricordiamo che a capo dell’FBI in quel momento c’era (pura coincidenza?) colui che è al centro dell’inchiesta sul Russiagate, Robert Mueller.
(Fonte: Global Research. “Call for New 9/11 Investigation: New York Area Fire Commissioners Make History”)
https://oggi24ore.altervista.org/torri-gemelle-minate-dopo-18-anni-si-riaprono-le-indagini-grazie-a-5-uomini-la-versione-ufficiale-comincia-a-perdere-pezzi/
Documenti CIA rivelati: “Hitler fuggì in Sud America dopo la guerra, c’è anche la foto”. L’umanità presa in giro da una storia fasulla
Hitler non si sarebbe suicidato nel suo bunker, come è scritto in tutti i libri di storia, ma sarebbe sopravvissuto alla seconda guerra mondiale e nel dopoguerra sarebbe andato a vivere in Sud America. E’ quanto riportato da uno dei file desecretati dalla Cia e custoditi dagli Archivi Nazionali Usa. Il Führer a metà degli anni ’50 sarebbe stato contattato in Colombia da un informatore dei servizi segreti americani.
A rivelarlo è un agente di intelligence in Sud America, dal nome in codice Cimleody-3. L’agente, stando al documento, reso noto dai media, sarebbe stato “contattato il 29 settembre 1955 da un amico di fiducia che ha servito sotto il suo comando in Europa e che attualmente risiede a Maracaibo”.
“L’amico di Cimelody-3 – ha continuato – ha affermato che nel settembre 1955 Phillip Citroen, ex ufficiale tedesco, gli ha detto in via confidenziale che Hitler era ancora vivo”. Ci sarebbe anche una presunta fotografia, arrivata nelle mani dell’agente segreto, e contenuta nel file: “Il 28 settembre 1955, l’amico di Cimelody-3 ha ottenuto la fotografia citata, e il giorno dopo e’ stata mostrata a Cimelody-3“. Nella didascalia e’ scritto: “Adolf Schrittelmayor, Tunga, Colombia, America del Sud, 1954“. La foto:
Con lui c’e’ una persona, che dovrebbe esser Citroen. I sovietici per anni hanno detto di avere resti di Hitler, anche se i corpi del dittatore e di Eva Braun ufficialmente sono stati cremati, ma in diversi negli Usa hanno dubbi in merito. Lo scienziato americano Nick Bellantoni dell’University of Connecticut, per esempio, nel 2009 ha studiato il frammento di un teschio in possesso dei russi, affermando che molto probabilmente apparteneva a una donna dai 20 ai 40 anni e non a Hitler.
Se venisse confermato quando contenuto nel documento si andrebbe completamente a riscrivere la storia.
“Hitler è morto in Brasile a 95 anni”: è la teoria di una studentessa universitaria:
Morto a 95 anni in Brasile: secondo alcune ricerche, svolte da una studentessa universitaria, il dittatore tedesco sarebbe in realtà fuggito dal suo nascondiglio e morì in incognito nel 1984 in una piccola città al confine tra Brasile e Bolivia. Alla ricerca di un tesoro Ma c’è di più. L’autrice ritiene che il fuhrer, prima di arrivare nel villaggio del Mato Grosso dove ha trascorso la seconda parte della sua vita, sarebbe passato in Argentina e Paraguay alla ricerca di un tesoro nascosto.
In mano una mappa che gli avevano fornito degli alleati in Vaticano. Fidanzato con una donna nera Per rendere più credibile il suo cambio di identità, il dittatore avrebbe anche avuto una relazione con una donna nera chiamata Cutinga: un rapporto creato ad hoc per dimostrare che in fondo non era il despota che odiava tutti coloro che non corrispondevano ai canoni della razza ariana. La teoria di una studentessa brasiliana Simoni Renee Guerreiro Dias, una studentessa post-universitaria, ha elaborato questa teoria in un libro dal titolo ‘Hitler in Brasile.
La sua vita, la sua morte’ in cui contesta l’ipotesi del suicidio nel bunker il 30 aprile 1945 e ipotizza invece una morte naturale nel 1984 all’età di 95 anni. Hitler, alias Adolf Leipzig, avrebbe vissuto nella piccola città di Nossa Senhora do Livramento, a 30 km dalla capitale dello stato Cuiaba. La gente lo chiamava ‘il vecchio tedesco’.
La prova in una foto L’idea della ragazza nasce da una foto analizzata al computer in cui si riconoscerebbero chiaramente i baffetti del dittatore tedesco. Nell’immagine Hitler abbraccia la sua compagna Cutinga. La foto diffusa sul web:
Inoltre una suora polacca giura di aver visto un uomo che somigliava al dittatore in un ospedale di Cuiaba all’inizio degli anni ’80. Chiede il test del Dna Due prove che però non consentono di affermare con certezza un epilogo per Hitler diverso da quello raccontato dalla storia.
Ma la studentessa vuole andare fino in fondo e per dimostrare la sua teoria la studentessa vorrebbe chiedere il test del Dna tramite una parente di Hitler che vive in Israele oltre a far riesumare i resti di Adolf Leipzig. Molti tedeschi fuggiti in Brasile La storia vuole in effetti che moltissimi tedeschi fuggirono dopo la guerra alla volta del Brasile tra cui l’Ss Adolf Eichmann e il medico nazista Josef Mengele. Un programma televisivo che affronta l’argomento:
E la teoria che ci fosse anche Hitler tra questi trova giustificazione anche dalla mancanza di una prova fisica sulla sua morte. Test su cranio di Hitler in realtà di una donna Alcuni ritengono addirittura che il test di Dna sui frammenti di cranio trovati vicino al bunker avrebbe dimostrato che quei resti non appartenevano a Hitler ma a una donna. Rochus Misch, una ex guardia del corpo di Adolf Hitler, l’ultima persona a vedere il fuhrer vivo, è morto lo scorso settembre a 96 anni. Fu lui a raccontare di aver visto il dittatore con la testa accasciata sul tavolo dopo aver sentito un colpo di pistola.
Sito della CIA: https://www.cia.gov/library/readingroom/docs/HITLER%2C%20ADOLF_0003.pdf
Fonte: www.globochannel.com
Altro che TAV, la Cina rivela un prototipo di treno a levitazione magnetica capace di raggiungere i 600 km/h (VIDEO)
Il dibattito in Italia è fermo intorno a una obsoleta linea TAV che dovrebbe collegare Torino e Lione per trasportare più velocemente fantomatiche merci. Intanto in Cina il progresso tecnologico prosegue senza sosta tanto che Pechino ha appena mostrato al mondo un nuovo prototipo di treno veloce, a levitazione magnetica, capace di raggiungere i 600 km/h.
La China Railway Rolling Stock Corporation (CRRC) ha presentato il primo prototipo di un nuovo treno a levitazione magnetica che promette di ridurre drasticamente i tempi di percorrenza tra Shanghai e Pechino. Il treno può raggiungere velocità incredibili di 600 chilometri all’ora (372 miglia orarie) perché utilizza i magneti per librarsi sopra i binari, risultando in un viaggio essenzialmente privo di attrito e molto fluido.
Il treno è stato costruito dalla controllata di CRRC Qingdao Sifang nella città di Qingdao, a metà strada tra Pechino e Shanghai. Ding Sansan, capo del team di ricerca e sviluppo del team di Maglev e vicecapo ingegnere dell’azienda, ha dichiarato a China Daily: “Il prototipo ha già raggiunto la levitazione statica ed è in condizioni ideali”, osservando che gli ingegneri sperano mettere in funzione il treno di prova nel 2021.
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I treni Maglev rimangono una tecnologia in gran parte futuristica, anche se esistono alcune linee maglev.
La Cina ha lanciato la prima linea funzionale al mondo nel 2002 a Shanghai utilizzando la tecnologia acquistata dalla Germania; può raggiungere velocità di 430 km / h. Il Giappone ha testato un treno a levitazione magnetica nel 2015 che può raggiungere i 603 km / h e spera di avere una linea maglev in funzione entro il 2027.
Ding ha osservato che l’obiettivo di questa nuova linea è di sostituire in gran parte i viaggi aerei tra le due metropoli. Con un viaggio in aereo, compreso il tempo di preparazione, circa 4,5 ore e un viaggio in Cina sulla linea ferroviaria ad alta velocità di circa 5,5 ore, Ding spera che la nuova linea di maglev impiegherà circa 3,5 ore.
Xinhua ha notato all’inizio di quest’anno che la Cina vanta oltre 29.000 chilometri di ferrovie ad alta velocità – due terzi del totale mondiale.
https://www.lantidiplomatico.it
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La canapa è un’alternativa, forse in assoluta la più valida, alla plastica – Quando lo capiremo?
Il 24 ottobre scorso il Parlamento europeo ha approvato una proposta di Direttiva, elaborata dalla Commissione, sulla riduzione del consumo in tutta l’Unione europea dei prodotti di plastica usa e getta. Secondo i calcoli, questa tipologia di oggetti costituisce il 70% dei rifiuti presenti negli oceani, motivo di diverse problematiche urgenti, prima di tutto in termini di salute. A causa della sua lenta decomposizione infatti, la plastica si accumula nei mari, rilasciando piccoli residui che vengono ingeriti dalle specie marine ed entrano nella catena alimentare, di cui ovviamente è parte anche l’essere umano. Inoltre, l’inquinamento dei mari ha un impatto economico: il costo per l’Ue dei danni dovuti al degrado causato dalla plastica che si deposita sulle spiagge è stimato tra i 259 e 695 milioni di euro all’anno, e provoca ingenti perdite principalmente al settore turistico. La nuova normativavieterà, a partire dal 2021, la vendita all’interno dell’Unione di articoli in plastica monouso come posate, bastoncini cotonati, piatti, cannucce, miscelatori per bevande e bastoncini per palloncini. Gli Stati membri entro il 2025 dovranno ridurre del 25% il consumo dei prodotti in plastica per i quali non esistono alternative. Per quanto riguarda le altre materie plastiche, come le bottiglie per bevande, dovranno essere raccolte separatamente e riciclate al 90% sempre entro il 2025.
Tra gli europarlamentari contrari alla Direttiva – tra cui, tra gli italiani, alcuni esponenti del Partito democratico, di Forza Italia e della Lega – hanno denunciato l’eccessiva fretta, le mancate valutazioni sull’impatto economico e un presunto approccio ideologico della proposta di direttiva. Uno dei temi che sta più a cuore a questa strana triade è l’effetto del divieto sull’occupazione, dato che in Italia operano 25 imprese che producono unicamente prodotti monouso in plastica. La normativa europea, però, non si esaurisce nell’imposizione di divieti, ma prevede per gli Stati membri la necessità di elaborare piani nazionali per incoraggiare l’uso di prodotti adatti ad uso multiplo, nonché il riutilizzo e il riciclo. Proprio l’Italia, allora, potrebbe trarre grandi vantaggi dal promuovere l’avvio di nuove imprese nel settore delle bioplastiche, e questo perché la storia industriale italiana fornisce un interessante spunto: la filiera agroindustriale della canapa.
Agli inizi del Novecento l’Italia produceva più canapa di quanta se ne produca oggi in tutto il mondo, dedicando oltre 90mila ettari alla coltivazione di questo vegetale. Nel nostro Paese, in base alle diverse lavorazioni, se ne ricavavano fibre tessili, corde, carta e oli commestibili. A molti risulterà strano date le attuali controversie politiche, ma nel nostro recente passato, sicuramente di stampo non progressista, persino Benito Mussolini, in un primo momento, ne aveva riconosciuto le doti. “La Canapa è stata posta dal Duce all’ordine del giorno della nazione,” affermò nel 1925. “Per eccellenza autarchica è destinata ad emanciparci quanto più possibile dal gravoso tributo che abbiamo ancora verso l’estero nel settore delle fibre tessili. Non è solo il lato economico agrario, c’è anche il lato sociale la cui incidenza non potrebbe essere posta meglio in luce che dalla seguente cifra: 30mila operai ai quali dà lavoro l’industria canapiera italiana”. Ma dopo solo pochi anni aver diffuso questo annuncio, il regime fascista dichiarò l’hashish nemico della razza e droga da “negri”, contribuendo ai malintesi tutt’ora presenti nella nostra società, perché creò confusione tra i termini di cannabis, marjuana e hashish: la prima indica infatti la pianta nella sua totalità, la seconda intende i fiori mentre la terza consiste nella resina estratta dai fiori e solo gli ultimi due, se assunti in determinati modi, hanno effetti psicotropi. Negli anni Trenta anche gli Stati Uniti si resero conto delle enormi potenzialità della canapa: nel 1941, il famoso produttore di automobili Henry Ford realizzò la prima vettura interamente costituita di plastica di canapa, più leggera ma anche più resistente delle normali carrozzerie in metallo, e alimentata da etanolo prodotto dallo stesso vegetale. Lo stesso Henry Ford, per dimostrare ai giornalisti e al pubblico l’elasticità e la resistenza del nuovo tipo di carrozzeria, si fece filmare mentre colpiva violentemente con una mazza di ferro il retro della Hemp body car senza che questa neppure si ammaccasse.
Sia in Italia che negli Stati Uniti, però, dopo la seconda guerra mondiale iniziò un lungo periodo di diffidenza nei confronti della canapa, e non solo per le sue proprietà “ricreative”. Alcuni sostengonoche il lungo periodo di proibizionismo che ha interessato la coltura di questo vegetale sia stato indotto dalle lobby del petrolio e della carta – per la fabbricazione dei giornali si richiedevano grandi quantità di solventi chimici a base di petrolio – che vedevano nel settore canapiero un nemico insidioso. Il dato storico è quello che testimonia, a partire dal dopoguerra, l’avvento nei mercati occidentali delle fibre sintetiche e la demonizzazione della marijuana a uso ricreativo: un mix che ha alimentato il progressivo indebolimento di questa industria.
Solo a partire dal 2012 l’atteggiamento di alcuni Paesi occidentali è mutato, spesso in concomitanza di una ritrovata coscienza sociale sui disastrosi problemi ambientali legati ai cambiamenti climatici. Sempre più nazioni si sono rese conto delle grandi potenzialità di questa pianta versatile e le tecnologie del nuovo millennio hanno riaperto le porte a infinite possibilità di utilizzo.
L’Italia si è parzialmente adeguata ai mutamenti politici in atto nel resto del mondo con la promulgazione della Legge 242 del 2016 che ha introdotto nel nostro ordinamento disposizioni per la promozione della coltivazione della canapa e della sua filiera agroindustriale. È il caso di dire che non si aspettava altro: la Coldiretti ha presentato pochi mesi fa uno studio intitolato La new canapa economy da cui si evince che, nel giro di cinque anni, l’Italia ha visto aumentare di dieci volte i terreni coltivati, dai 400 ettari del 2013 ai quasi 4mila stimati per il 2018. Sono campagne dove si moltiplicano le esperienze innovative, con produzioni che vanno dalla ricotta agli eco-mattoni isolanti, dall’olio antinfiammatorio alle bioplastiche, fino a semi, fiori per tisane, pasta, biscotti e cosmetici.
La bioplastica di canapa è quindi già una realtà, e non solo nei grandi Paesi industrializzati come Canada e Stati Uniti, ma anche qui in Italia. Nel 2015, in Sicilia, è stata fondata una piccola impresa, la Kanesis, creata da uno studente di Ingegneria dei materiali di 22 anni. Giovanni Milazzo ha brevettato un materiale plastico simile al polipropilene, ricavato dagli scarti di lavorazione della canapa. Il risultato è un composto di fibre naturali biodegradabile, riciclabile ed esente da tossine, prodotto a prezzi concorrenziali rispetto alla comune plastica. La pianta di canapa è inoltre molto facile da coltivare: è comunemente chiamata “erba” perché come le “erbacce” cresce molto velocemente e si è adattata a crescere in tutti i continenti tranne l’Antartide. Dal seme al raccolto, le piante impiegano solo 3 o 4 mesi per crescere e, una volta grandi, assorbono ingenti quantità di CO2 dall’atmosfera. Richiedono, inoltre, generalmente meno pesticidi, fertilizzanti e acqua rispetto ad altre risorse bioplastiche come il cotone e il legno, fornendo un raccolto più rispettoso dell’ambiente e a bassa manutenzione.
Se vogliamo continuare a vivere su questo pianeta non possiamo più girare la testa sui disastrosi problemi ambientali che abbiamo creato. Fortunatamente per noi, abbiamo sviluppato, tecniche, colture o tecnologie in grado di poter modificare il nostro impatto ambientale con meno sacrifici di quanti potevamo immaginare solo pochi anni fa. Serve però una grande volontà politica e lungimiranza. In Italia, purtroppo, rispetto ad altri Paesi occidentali, la situazione è tra le peggiori, in quanto il dualismo interno al governo, rappresentato da Lega e M5S, non offre una linea univoca sulle questioni legate all’ambiente. Inoltre, già da tempo, la scarsa volontà politica viene camuffata da ricatto occupazionale: sembra che non possiamo modificare le nostre economie perché si perderebbero posti di lavoro. Ma è falso. Le “economie green” creerebbero nuovi posti di lavoro fondando nuove imprese e riconvertendo quelle già esistenti, permettendo ai lavoratori di operare in ambienti più sani ed evitando di creare quegli abomini inquinanti come l’Ilva di Taranto.
Nel governo italiano il quadro è questo: mentre i Cinque Stelle si dicono favorevoli alla promozione della coltivazione della canapa, il ministro dell’Interno Matteo Salvini sta da tempo mettendo in discussione la legge 242/2016, ed è facile immaginare che una stretta repressiva per contrastare la vendita di cannabis light potrebbe avere ripercussioni anche sulle coltivazioni funzionali ad altri usi. In più, mentre il M5S sembra sensibile al tema dell’inquinamento dovuto alla plastica, gli europarlamentari della Lega hanno contestato la buonafede della Direttiva Ue e hanno votato contro. Per anticipare gli effetti delle decisioni prese in Europa, al contrario, il ministro Costa, del M5S, ha presentato la Legge Salvamare, finalizzata a promuovere il recupero dei rifiuti dispersi nelle acque nostrane, il cui iter parlamentare dovrebbe iniziare da gennaio 2019. La proposta ha già generato contrasti interni al governo, e la sottosegretaria leghista al ministero dell’Ambiente Vannia Gava ha prontamente espresso il suo disaccordo, chiedendo di coinvolgere anche “i numerosi operatori industriali nel settore delle plastiche”. Non si può dunque escludere che dal prossimo anno il tema dell’inquinamento delle plastiche usa e getta sarà un campo di battaglia su cui i partiti di governo Lega e M5S misureranno le loro forze. Purtroppo, sempre con un pietoso anacronismo e a nostro discapito.
fonte: https://thevision.com/attualita/canapa-plastica-italia
WI-FI – La morte invisibile che sta distruggendo le nuove generazioni
legato ai settori in piena crescita della telefonia e della tecnologia wireless in genere, monopolizza infatti l’informazione, impedendo che si sappia a livello di massa un’inquietante verità: l’esposizione alle radiazioni di microonde a basso livello (Wi-Fi) è causa conclamata di irreversibili danni cerebrali, cancro, malformazioni, aborti spontanei, alterazioni della crescita ossea. E la fascia di popolazione più a rischio è rappresentata in assoluto dai bambini e dalle donne.
“Lo so che perderò il posto di lavoro ma basta tacere, si muovono ancora e io non ce la faccio più!”
Lui si chiama Mauricio e nel mese di Novembre del 2016 ha deciso di dire basta allo scempio che noi in realtà già conoscevamo come “la strage dei mai nati”.
Caro genitore, se tuo figlio è maleducato, la colpa è tua!
Bambini maleducati o genitori maleducati?